“ESSERE”

Spero tanto che non sia una trovata pubblicitaria. Davvero.Vorrei tanto che l’autore o gli autori, la setta o i “carbonari” che hanno scritto il manifesto “ESSERE” che tappezza gran parte di Roma , esistano, respirino e siano. Siano davvero.

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E, se dovessero  condannarli  per affissione selvaggia , sono pronto a devolvere un mio modesto contributo alla causa, poiché ritengo che mai “manifesto abusivo” fu così carico di  estetica  e di visione “Heideggeriana” della poesia.Nel leggerlo ho avuto un sussulto come quando, giovinetto, vidi per la prima volta l’Attimo Fuggente,ben  36 citazioni  dotte  sparate a raffica durante il film. La setta dei poeti estinti e il Professore che, insieme,  recitavano  Keating, Whitman e ancora  Pitts e Perry ;   tutto d’un fiato e con un entusiasmo contagioso.

Ricordo, infatti,  che  quel  film  mi costrinse  a cercare  qualcosa su Whitman che io, fino a quel momento,  nemmeno sospettavo che esistesse. Fui  fortunato, dopo  aver vagabondato  in  4 librerie romane incassando altrettanti no, trovai una sorta di nerd che, come me,  aveva visto il film, prese una raccolta di poesie di Whitman e me  la porse con il miglior sorriso che si potesse sperare. Accadde parecchi anni fa.

Ecco, il manifesto” ESSERE” con i suoi 14 punti mi ha ricordato quell’entusiasmo e,  mi ha condotto nuovamente ad una delle citazioni di  Keating , forse la più intensa “ Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l’amore, sono queste le cose che ci tengono in vita”. Ora è tutto come allora, il tempo non ha cambiato nulla.

“ESSERE” incarna l’anima del  verbo che parla, declama  ai passanti  uno stile di vita dimenticato, calpestato   in nome di un progresso che è sconfinato nella barbarie e, la girandola  di quelle parole in ogni dove  ha un senso deflagrante,   maestoso  e fortemente simbolico  proprio nel momento  in cui Roma  sembra capitolare sotto il peso della lordura di “Mafia Capitale”.

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Non c’è una traccia o il minimo indizio dell’autore /i  e,  forse,  è  per questo  che fa sorridere” i più”, i quali   con fare sornione  liquidano la cosa con  un  secco “ è il solito scemo” oppure  “ Ma quanti soldi avranno buttato via ?” . Il manifesto non è accattivante , non ha immagini e né colore , solo  parole e concetti ,  alcuni scontati e autoreferenziali  ma altri taglienti come rasoi.

“I più “, è notorio, adorano i manifesti dei convegni , dove politici, guitti e saltimbanchi parlano di finta integrazione o di riprese economiche impossibili, vanno in visibilio per  le pubblicità con qualche natica o mammella della scemina di turno. Sono incuriositi dai titoloni dei partiti che sciorinano sui manifesti   le frasi più finte e false che esistano   “Il futuro è l’europa?”    “Dinamiche e cambiamento  dopo il semestre europeo”   “ l’italia nel bacino del mediterraneo: analisi e prospettive”  tutto roba:  trita, ritrita e pure vomitata.

La poesia non salverà il mondo, ma di certo  aiuta l’individuo  a vivere meglio e più in profondità  , soprattutto , essa non fa distinzioni  tra sesso, ceto e colore della pelle, ma spiega il mondo, la vita con immagine, suono e senso,  a tutti ,indistintamente.  Ecco, e , se  qualcuno a sue spese ce lo ricorda senza gridare , bisognerebbe, almeno  rendergli omaggio  con i due minuti che occorrono per veloce lettura. Certo,  l’ideale sarebbe che scaturisse anche qualche riflessione  sulla “decadence”  in cui siamo impantanati , vittime, ormai,  di un narcisismo selfistico debordante e di un assolutismo senza freni  o che qualcuno la smettesse di considerare poeta quel “cazzone “ di Jovanotti , ma si sa, tutto non si puo’ avere.

ESSERE” spinge, comunque,  a essere unici, diversi e a non cadere nella dittatura del si, alimenta, insomma, la non sincronia di vedute e , suggerisce all’ignaro passante  di riprendersi il senso delle cose  ed il governo dei propri pensieri.

Va da se che non tutti possono essere capaci d’ usare l’arte della parola ma si può uscire  dall’embargo del pensare come si pensa o desiderare quel che il mondo intero desidera  facendo leva  sulle sensazioni e sentimenti, elevandosi  quel gradino che consente  di svincolarsi da ideologie e modelli imposti, suggeriti , proiettati ed iniettati. Sono 14 punti semplici; qualcuno addirittura elementare da far sorridere ma è nella semplicità che risiede la sua forza, in fondo  il poeta  guarda il mondo con gli occhi da grande ma scrive con la  meraviglia  di un bambino.

Il punto n.14  potrebbe sembrare ermetico, incomprensibile ma è solo un ‘impressione  poiché esso è chiaro ed è  volutamente posto a chiusura del viaggio. Se  il crescendo di “ESSERE” non ha scalfito, toccato alcuna corda nei sui tredici punti, se non ha prodotto il benché  minimo bisbiglio della coscienza , allora bisogna , con consapevolezza , prendere atto  che se non si è, non si potrà mai essere. Amen.

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E’ per amore che oggi veniamo allo scoperto.

Da sempre la nostra specie è tra voi. Nella lingua Italiana con la quale oggi parliamo a voi liberamente,noi siamo i poeti.

Sono nostre tutte le espressioni veramente artistiche che da sempre vi hanno innamorato, come vostre tutte le meravigliose opere dell’ingegno e della santa fatica che ci hanno permesso di vivere in armonia con voi.

Non tutti i poeti sanno di appartenere ad una specie diversa, ma si riconoscono tra di loro.

Non è possibile la realizzazione di alcuna forma veramente artistica da parte di nessuno che non da un poeta.

L’unica vera Arte è poetica perché fatta dal poeta.

É impossibile l’insegnamento artistico perché il poeta nasce poeta. É possibile solo lo sviluppo della disciplina poetica da poeta a poeta.

Gli infiltrati vanno allontanati.

L’unico servizio possibile che una struttura atta all’insegnamento artistico può dare al poeta e quindi all’unica vera Arte, la poesia, è non fargli fare assolutamente nulla e tenerlo il più lontano possibile da qualsiasi pratica altra.

Il poeta ha il coraggio di non fare nulla.

Il poeta non facendo nulla non soffre di nessun tipo di rimorso, perché altra è la sua natura e alto il suo contributo.

Il poeta non fa’ distinzioni tra le ridicole categorie quali: sesso, luogo di provenienza, colore della pelle, credo religioso o politico, ceto sociale.

Il poeta è ovunque, sotto qualsiasi forma.

Il poeta riconosce la poesia di un altro poeta in qualsiasi forma espressiva e per questo, riconoscerà questo manifesto come scritto da un membro della sua specie, o prenderà coscienza di se stesso, liberandosi cosi dalla schiavitù di una natura altra.

Chi non è, non è.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Shakespeare. ” Morire, dormire, forse sognare…”

Pier Paolo Pasolini, nei suoi dormiveglia aveva delle illuminazioni e, una volta sveglio, sentiva l’esigenza di scrivere dei versi  o qualche pagina di straordinaria prosa, le sue allucinazioni ipnagogiche erano praticamente uno stimolo alla sua creatività. Ma lui era Pasolini, non certo  Mister  pizza & fichi.

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Ai più, invece,  la fase di dormiveglia incute timore e talvolta terrore poiché , lamentano che i sensi  vengono  rapiti da qualche incubo o addirittura piombano  in una sensazione di paralisi motoria , la famosa sensazione di non potersi muovere. Delle volte , oltre alla paralisi, nello svegliarsi, qualcuno, avverte  una presenza maligna nella stanza che emette suoni o gemiti , tanto che la sensazione di  intrappolamento nel corpo genera  angoscia e cupa disperazione. C’è una discreta percentuale che dichiara di vivere il dormiveglia  in maniera fluttuante, ovattata  tanto da vedersi fuori dal corpo e, chi, invece, sente  un demone malefico che si accovaccia sopra il petto  e tenta di soffocarlo, di rubargli il respiro. C’è chi giustifica il tutto con i viaggi astrali o con lo sdoppiamento di anima e corpo, qualcun altro scomoda il paranormale o gli alieni ma , in realtà, il tutto risiede nella lotta eterna  tra  la coscienza ed il cervello che nella  fase di transizione, fra lo stato di veglia e quello di addormentamento, si  combattono  senza esclusioni di colpi. Capita anche a me di avere  pensieri del tutto involontari ed incontrollati mentre sono assolutamente conscio di essere a letto a dormire o mi sto accingendo a farlo. Ma, ad essere sincero, la fase del dormiveglia è la mia preferita poiché per qualche verso riesco ad orientarla, governarla tra centinaia di immagini o pensieri involontari, mentre, il sonno potente, mi rapisce impedendomi di ricordare la benché minima traccia di un sogno.

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Comunque , scienziati e studiosi sono tutti concordi che il pensiero del dormiveglia è poco conosciuto e difficilmente catalogabile. Già, è impossibile sondare o cogliere l’essenza della fase allucinativa, impossibile tracciare il gioco del nostro pensare quando esso è libero dalle idee diurne, dirette verso cose concrete e magari ripetitive. Il pensiero del giorno è una successione di idee organizzate e finalizzate al lavoro, rispetto degli orari, adempimenti familiari e tutto ciò che caratterizza ogni comune mortale, ad esclusione dei ricchi e degli  straricchi. Concatenazioni logiche, giudizi e asserzioni vanno a configurare la nostra vita all’interno di un percorso tradizionale e conosciuto , mentre nel dormiveglia accade che da questi pensieri sedimentati, dal cosiddetto “ grappolo ideario”,  partono delle idee libere, pure, anche bizzarre , insomma si materializza  una scia di pensieri senza condizionamenti. Ed è così che nei miei dormiveglia sono accadute cose straordinarie che hanno allietato la morsa del rimpianto o che hanno completato azioni o progetti che nella vita da “sveglio” non avrei  mai più potuto realizzare.

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Così è successo  che  una domenica mattina presto, con una flebile luce che filtrava da una finestra, ho sognato  mio padre  che mi aiutava a caricare delle canne da pesca  in macchina. Non abbiamo mai pescato insieme anzi , quando tornavo dalle mie battute mi chiedeva se mi fossi annoiato e che gusto provassi a stare ore immobile a guadare un galleggiante o ad ascoltare un campanellino.  Quella domenica mattina, il viaggio in macchina ,caffè  e cornetto  e lui che mi raccontava aneddoti sulla mia infanzia, c’era un clima sereno e di complicità  che non annovero tra i  ricordi degli oltre 34 anni della  mia esistenza passata con lui. Il lago era verdissimo, il sole era alto ed eravamo  soli, mi raccontava cose che non conoscevo e mi chiedeva se era successo qualcosa di particolare durante la sua assenza. Era in buona salute e non smetteva di parlare, mentre, io, non riuscivo ad inserirmi  nel suo argomentare, ricordava  il  servizio militare prestato a Verona e di come avesse fatto amicizia con i commilitoni poi passò a raccontarmi dell’islam e della sua permanenza in Arabia Saudita. Non riuscivo ad interromperlo ed ebbi l’impressione che non fosse mio padre poiché avevo un ricordo di lui meno chiassoso, anzi, a dire il vero, in vita, era un “orso” taciturno e solitario.D’improvviso, il galleggiante partì fischiando, cercai di tenere botta ma, il filo si spezzò.Il sughero colorato di rosso prese la direzione di un canneto sulla destra, mio padre si affrettò ad incamminarsi per recuperarlo, affermando che riusciva a vederlo ancora, mentre io, non vedevo altro che calma piatta , dopo un guizzo e una lunga scia si erano inabissati  pesce , filo e galleggiante. Di getto gli dissi “ ti voglio bene”, con la sensazione che non l’avrei più rivisto, lui mi guardò un po’ sgomento e, in controluce, rispose “lo so”. Sparì dietro al canneto. Rimasi sulla sponda del lago fino all’imbrunire, lui ,come previsto, non tornò. Ecco, non avrei avuto alcuna possibilità  se dalla mia coscienza non si fosse staccato  il segmento del rimpianto, non avrei potuto più dirgli quanto gli volessi bene se la luce della finestra non mi avesse ricordato il bagliore del lago e il sogno non mi avesse portato  lì.L’alchimia tra l’elettromagnetismo, coscienza, rimpianto, sogno e colori mi hanno condotto non in un area di  estrema labilità che non lascia traccia di memoria ma in un luminoso lago con una sequenza nitida , palpabile quasi vera. Non importa che mio padre non avesse i baffi e che chiacchierasse troppo o che portasse un orologio troppo moderno , a me importa la chance, la possibilità unica che mi è stata concessa in quel  momento onirico, dopo  tanti anni. Erano uno spazio ed un tempo  definiti, che ruotavano  attorno ad un dormiveglia,  era un ‘allucinazione in uno  dei luoghi miei preferiti, con un carico di sentimenti aggrovigliati, anche dolorosi ma niente di sfuggente o scomparente in un attimo. Come in un film, ho vissuto una giornata intera e, baciato da un raggio di sole , ho “vissuto “ qualche ora con il mio vecchio, salutandolo come avrei sempre voluto fare ma, che, come autentico stronzo, non ho fatto.

addio

Il mio risveglio, insomma  portava con se’ il ricordo di un sogno lucido e  l ‘indolenzimento di un braccio, ma anche la sensazione  che è possibile fondere il  proprio mondo interiore con la creatività dell’ inconscio per generare , caparbiamente  o in maniera involontaria ;sogni, amori o mostri. Sono ritornato al lago, per diverse  volte fino a che non ho trovato una giornata di sole intenso  e, dalla stessa sponda ho osservato il canneto in lontananza con la consapevolezza che avevo salutato per sempre mio padre e che quel lago, per me, non sarebbe stato più lo stesso.

Non sono andato più a pescare e, mi sento ancora stronzo.

Il pesce dalla faccia triste

Ad essere sincero ho sempre dubitato delle commissioni giudicatrici di concorsi e di mostre , un po’ perché sono uno spocchiosetto e un po’perché non sempre mostrano, nei risultati, l’oggettività che dovrebbe derivare da criteri precisi e non discrezionali.Prova ne è la bagarre  che segue  i nostri concorsi cinematografici, le manifestazioni canore, miss muretto  e quant’altro.Oltreoceano è ancora peggio poiché sfornano un concorso al secondo sui temi più disparati : l’ombelico piu sporgente, miss 7 anni che deve sembrare averne 14, Mister casalingo frustrato ( e via discorrendo) senza che le polemiche cessino per almeno un mese.

Il motivo odierno del mio risentimento risiede nel fatto che; non riesco ad accettare che il pesce blob sia stato eletto l’animale più brutto del mondo.Durante il Festival della Scienza di Newcastle, infatti, è stato annunciata la sua vittoria a seguito di un concorso lanciato dalla Ugly Animal Preservation Society (UAPS)  con il preciso scopo di tenere alta  l’attenzione sugli animali brutti in via di estinzione.

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Il pesce blob ha sbaragliato la concorrenza ottenendo 795 voti su oltre tremila espressi online , diventando, così,  la mascotte ufficiale della UAPS.Naturalmente non condivido tale  verdetto e mi batterò affinché si possa ripristinare la verità e si faccia giustizia in qualche modo.

Chi è il pesce blob?Il Marcidus Psychroslutes detto  blobfish o ancora più comunemente , il “pesce dalla faccia triste” non è certo un adone. Bruttino, gelatinoso , esso ha una testa enorme con grandi occhi ( lo sguardo è un po’ burbero) su un corpo flaccido e cascante. Colorito roseo- grigiastro, chiazzato sul dorso, ha grosse  labbra rosa tendenti al bianco. Privo di ossa e muscoli se ne sta quatto quatto nelle profondità marine tra i 700 e 1200 metri , non nuota ma galleggia  e, per vivere , non caccia  ma aspetta il cibo che cade, insomma, è un vero signore. Arriva a misurare  una  30 di centimetri  e vive tra le acque della Tasmania, Australia e Nuova Zelanda. Il suo habitat non è proprio accessibilissimo per cui  è stato studiato poco e le foto scattate si contano sulle dita di due mani. Non ho trovato nulla sulla sua sessualità e su come si accoppia ma cercherò d’informarmi  dalla letteratura scientifica esistente. Attualmente è a rischio di estinzione a causa della pesca a strascico sui fondali e anche dal fatto che non si muove ma si lascia trascinare dalle correnti.

Riassumendo abbiamo un essere pigro che sembra fatto di cera sciolta che a causa della sua scarsa mobilità, oltre a quanto già descritto,  ospita anche un discreto numero di parassiti. Esiste una foto  in cui un piccolo parassita bianco, a forma di piccolo vermicello, alloggia indisturbato all’angolo della sua bocca anche dopo che il blob è stato pescato.

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Riguardo al fatto che si chiama “faccia  triste”  ritengo  che sia dovuto al fatto che incarna l’espressione della tristezza specie nelle zone del viso più  attive e anche un po’ marcate(da qui l’espressione burbera).Difatti , gli angoli interni delle palpebre sono un po’ sollevati  e lo sguardo è abbassato , mentre, la bocca si presenta con gli angoli abbassati ai minimi storici e le labbra cadenti , insomma sembra che sia, sempre,  sul punto di piangere. Insomma, la postura  e la  mimica del viso conferiscono al  pesce blob, un aria più triste che brutta. Se consideriamo, poi,  che le persone simpatiche nascondono un po’ di tristezza , va da sé che il pesce blob, triste , in realtà è anche simpatico ( lasciatemela passare).E poi, basta con questa sottomissione al  fashion-victims, a questa ricerca estetica che induce a mettere le ciglia finte alle cagnoline o a depilare il culo irsuto del cane.

Leggiamo il mondo per quello che è senza le fascinazioni compulsive che ci inducono a catalogare tutto in bello e in brutto. In natura ,la cui storia è stata scritta ad artigliate , sangue e morsi, ricordo, che  esiste anche  la funzionalità del corpo e quindi del proprio essere  che si evolve in base all’ambiente, per cui,  vorrei vedere quale animale sotto migliaia di tonnellate di acqua, al buio,  manterrebbe  muscoli guizzanti ed espressione giuliva. La tristezza, poi, non conferisce bruttezza, anzi, il contrario, suscita sentimenti protettivi  e di empatia  poiché , spesso, essa  si combina col tenero e si mimetizza nel bizzarro. I  795 votanti , attraverso la faccia del pesce blob si sono connessi  al fondo oscuro dell’essere, all’oppressione  dello spirito, in quella faccia hanno letto tristezza cupa e tenebra e, essendo  la tenebra cattiva, nemica della luce, ne deriva che il pesce blob, per i votanti, incarna il brutto.

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Il pesce blob a me fa tenerezza tanto che non esiterei un attimo ad accarezzarlo o a tenerlo in un acquario ( ammesso che si possa fare)  e, se proprio vogliamo dirla tutta, il titolo di più  brutto è immeritato poiché conosco almeno altri 10 animali che hanno un aspetto orripilante  da surclassare l’espressione  del nostro gelatinoso amico. Prima di lasciarvi ad una carrellata di animali i frankenstein, tra cui: talpe, squali goblin , pesce pecora, Pipistrello Yoda etc etc…  vi invito a guardare il blobfish  con occhi benevoli, cercando di cogliere la velata umanità di chi è conscio di non essere commestibile, di essere bruttino e  triste, di non sapere muoversi e cacciare e, sicuramente, di un pesce i cui amplessi, appiccicosi e dolorosi all’inverosimile, ( provate a far aderire due gelatine e poi a separarle, si genera  un effetto strappo ) sono sporadici se non addirittura assenti. Sorridete al pesce blob e che sia fatta giustizia.

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IL LECCACULO CONTEMPORANEO

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Gli americani, popolo che non amo e che mai amerò, usano indicare una tipologia di persone con il termine “Brown nose”, letteralmente, naso marrone; espressione a cui la vostra immaginazione, immediatamente, troverà traduzione, motivazione e  connessione con la più italiana ” “leccaculo”. Dunque, partendo dal presupposto che lecchini si nasce e che non c’è esordio in società  che non siano i fiori alla maestra o i braccialini per i figli della maestra,vi chiedo di non cadere,però, nell’errore  di  considerare il  più grande di tutti, cioè il Rag. Fantozzi , come l’icona del lecchino moderno.

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Vero è che la saga Fantozziana è l’emblema massimo dell’annullamento dell’identità e che la sua maschera tragica rimarrà per anni il simbolo dell’impotenza totale ma , oggi, le cose sono cambiate, radicalmente. La pinguedine e la canottiera non esistono più, la faccia del ragioniere con l’espressione allibita, schifata e porcina è stata soppiantata da movenze signorili studiate davanti allo specchio, faccine sgomente e colpetti di tosse che sottolineano e sottintendono; il tutto condito da vestiti buoni di sartoria o presunta tale. Il nuovo Ragionier  leccaculo è scaltro e le sue pacche bonarie e  ammiccamenti sono quanto di più diabolico possano esistere.

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Abbastanza colto ed intelligente, non esprime mai la sua idea e non entra in contrasto con le idee di chi comanda ma, al contrario, si allinea,  adatta, assoggetta ,  capacissimo anche di cambiare colore della pelle come i camaleonti. Il nostro conosce quanto sia  afrodisiaco il potere e la sua espressione per cui  con puntiglio, pianifica una strategia, sceglie in tipo di sgomitamento da adottare e via…tattica e soprattutto adattamento al bagliore del potente. In campo lavorativo, politico e religioso passa dal complimento rivolto al discorso del politico infarcito di nefandezze , fino ad impegnare le sue domeniche per fare jogging con il capo, arrivando, naturalmente, a fare la letturina di un salmo alle messa delle 12. Con il sorriso perenne  esegue pedissequamente  qualunque ordine dell’autorità ,quale essa sia, non esita un ‘istante, se geloso, ad ostacolare o sputtanare chi ha più numeri di lui  o colui che può costituire una minaccia al suo cammino. Diverse pubblicazioni  e qualche manuale, hanno classificato la tipologia del “leccaculo” ma ,essendo , l’evoluzione della specie rapidissima, lo slinguatore muta pelle e carattere con facilità.

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Partiamo dall’”avvocato” o presunto tale  , il leccaculo di turno impegnato spasmodicamente a cercar norme, addirittura ad inventarne o ad interpretarne volgarmente il  senso a suo favore per ottenere il riconoscimento del potente. Scova un codicillo inutile e si batte come un leone aprendo scenari risolutori a cause irrimediabilmente perse. Si arrenderà all’evidenza ma , non prima di  affermare di avercela messa tutta. E’ tra i più patetici.

Poi c’è il leccaculo spia,  personaggio laido che raccoglie critiche o il  malcontento tra i colleghi, parla fintamente male dell’operato del capo per  ingraziarsi le simpatie altrui e induce i malcapitati ad aprirsi in confidenze o lamentele. Impara a memoria tutto ciò che raccoglie e, cronometrando  mezz’ora dalla confidenza, rapporta  tutto al capo, romanzando e ingigandendo  di  20 punti percentuali  le indiscrezioni o confidenze  che ha udito. Un esempio:  parole del dipendente “ Il capo non ha ben compreso quello che sta accadendo”   versione riferita  da leccaculo spia” il capo non capisce un cazzo e sta facendo un macello”. Il peggiore di tutti.

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Il leccaculo erga omnes, ha stampigliato nel suo dna la pratica del servilismo  , quindi, geneticamente predisposto, imposta la sua esistenza solo su chi potrà un giorno essergli utile. Passa dall’ingraziarsi la commessa del supermercato per avere le buste gratis fino ad arrivare a far il ruffiano con  la segretaria del capo o a lanciarsi in elogi sperticati verso il capo in sua presenza , affinchè la medesima possa riferirlo al suo arrivo. Non esita a compiacere il suo capo abbigliandosi come lui. Incarica la moglie a trovargli le cravatte che hanno colore e trama simili a quelle del capo. Schifo.

Il leccaculo “etico ” , costui, idolatrando i vitelli d’oro e vivendo la vita in una posizione a novanta gradi, cerca di celare la sua arte con senso civico e umanità. Aiuta il prossimo, a condizione che abbia parentela con politici ed altolocati e,  se viene osservato butta la carta nei cestini o cassonetti. In ufficio è colui che offre, solo al capo, le sue conoscenze nei presidi ospedalieri, i negozi con scontistica o il ristorante del parente.Nelle discussioni accanto alla macchinetta del caffè parla di democrazia , libertà e rispetto con tono solenne e ribadisce in ogni circostanza che la sua inclinazione verso la dirigenza costituisce un azione di tutela verso tutti i colleghi  , insomma , la sua azione è per il bene collettivo. In realtà, costui, odia i negri e gli autostoppisti, butta cicche e cartacce dal finestrino  e quando parla con il capo, i colleghi sono fancazzisti mentre lui è la colonna portante dell’ufficio. Merda autentica.

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Il leccaculo “pinocchio” bugiardo e finto fino all’inverosimile è specializzato in bugia o provocazione. Ammiccante, con sapienti  schiarite di voce o silenzi  strategici, narra al capo di  tresche amorose, riti saffici e orge consumati sulle scrivanie o nella stanza delle fotocopie  al fine di demolire definitivamente colleghi o rivali. Abilissimo nell’indurre il malcapitato nella disgrazia, prima dichiara  amicizia e disponibilità, poi lo fa abboccare   con frasi del tipo “ ma hai visto la figlia del capo , che monnezza!”  o  il classico “si dice che il capo abbia le corna “. Affermazioni  bugiarde  che poi vengono puntualmente addebitate all’interlocutore ignaro e un po’ coglione.

Leccaculo “calcolatore” per lui vale solo una regola” andrò sempre via dopo in capo”.Passa la giornata a chiedere in maniera sordida se c’è il capo e quale sarà la sua agenda  al fine di incrociarlo, di mostrarsi indaffarato e di sottolineare che ha  un sacco di lavoro da fare. Generalmente, gira senza giacca, maniche di camicia arrotolate e cravatta allentata. Cazzeggia su internet e fa acquisti su Yoox  ma all’arrivo del capo diventa dinamico e indaffarato, telefonando e facendo tonnellate di stampe. Attende l’uscita del capo e alla “buona serata “ risponde con un “ buonanotte” triste e carico di angoscia come a voler dire “a me forse non basterà la notte per le cose che devo fare ”. Va da sé che quando il capo ha fatto 100 metri, inserendo  la seconda marcia, il nostro, ha già chiuso il suo ufficio e si fionda verso l’uscita.

Lo “slinguatore leone”  agisce prevalentemente  nei pressi della macchinetta del caffè con fare rivoluzionario, bestemmia per un nonnulla e fa il comunista. Impreca per il troppo caldo o per il freddo, ritiene che i buoni pasti non siano sufficienti  e predica  che i diritti sindacali siano il sale della vita lavorativa. E’ un autentico leone pronto ad imbracciare fucile e elmetto contro i capi poiché, dichiara,  sono coloro che non hanno a cuore il destino dell’azienda.  All’inizio è amato dai colleghi per il suo spirito battagliero  ma non appena viene sgamato con la facilità con cui entra ed esce dalla stanza dei capi e dai privilegi che ottiene  dalla sua  “contrattazione personale”  a discapito di altri , viene abbandonato e alla macchinetta del caffè rimane da solo.

“Leccaculo scambista”, personaggio diabolico che entra in scena nel momento in cui nello stesso ambito lavorativo c’è un altro leccaculo di livello alto. Ed è allora che si instaura una sorta di patto di non belligeranza tra i due contendenti che si riassume in un ““Tu dici in giro che io sono bravo ed io faccio altrettanto con te”. Vanno dal capo in due, dopo aver studiato quello da dire e non risparmiano di fare l’uno il testimone dell’altro  per dare maggior  credito  agli scenari apocalittici che raccontano. Nell’abbigliarsi  e nello zuccherare il caffè del capo, non si risparmiano in colpi bassi e attentati.

Sorvolando  sul leccaculo collodiano, lungimirante e altre tipologie, viene semplice dire che l’adulazione, nella nostra società rappresenta una strumento agevolato per acquisire privilegi e favori. Infatti,  personalizzare la leccata a seconda del destinatario, scoprendone i punti deboli: figli, intelligenza, bellezza, professione, casa, squadra di calcio, hobbies e cazzi& mazzi è quanto di più proficuo si possa fare in un ambito lavorativo . Già, perché ricevere complimenti e sentirsi circondati dal consenso spudoratamente falso, piace sempre di  più poiché è notorio che  la verità fa male e l’adulazione è sempre più vincente ed appagante. Peccato che nel nostro mondo non funzioni la stessa regola del mondo animale, in cui  il “puledro ruffiano” non trascorre una  buona esistenza, anzi ha una  vita triste e meschina.

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Infatti, al cavallo ruffiano  vengono recisi i dotti deferenti, cioè gli viene praticata una vasectomia per renderlo sterile. L’intervento  non preclude l’ erezione, quindi, in ogni caso,  permetterà al nostro puledro  comunque il sollazzo sessuale. Le  cavalle, che hanno un brevissimo periodo di calore nel quale sono feconde e accettano il maschio, in quei giorni  sono particolarmente irascibili poiché  tendono ad  aggredire con sonori calci delle zampe posteriori, le palle ed il petto  dei  maschi troppo avventati . Ecco, durante questo periodo “nervoso”, si ricorre al  cosiddetto, sfigatissimo, puledro ruffiano, che viene introdotto nel recinto assieme alla cavalla in calore a prendersi  la fase acuta di calci e morsi. Questo per evitare  che la cavalla possa  calciare e ferire seriamente uno  stallone costosissimo. Comunque,  la battaglia puo’ durare anche qualche giorno e,  quando l’allevatore  si accorge  che la cavalla si è  “sfogata” fisicamente  e, stimolata,  sta  per “accettare ” il maschio, tira  via il  puledro mazziato e fa entrare  dentro il fortunato   stallone ” per la monta. Fine delle trasmissioni per il “cavallo ruffiano”.

Insomma, un cavallo che fa il lavoro sporco per conto dello stallone che, al momento culminante ed agognato,  con un erezione alla Siffredi viene allontanato ed isolato miseramente con il suo carico di frustrazione e….non solo.

Ecco, sarebbe equo e giusto che nella nostra società, i  leccaculi o i ruffiani, assaggiassero, per una sola volta,  l’intensità di quei calci alle palle e nel momento di una promozione o di un avanzamento, venissero, miseramente, “tirati via”.

Che meraviglia che sarebbe.

I bronzi di Michelangelo e le teste di Modigliani

Michelangelo_new-R439_thumb400x275 Due bronzetti di un metro, uomini nudi che salutano con la mano alzata, cavalcando due pantere, sono stati venduti da Sotheby’s, nel 2002, come opera del Maestro Benvenuto Cellini. Passati 13 lunghi anni, il Fitzwilliam Museum di Cambridge, per bocca del Professor Paul Joannides annuncia che le statuette, invece, sono da associare a Michelangelo, poiché altro non sono che la realizzazione bronzea di alcune bozze che sono riconducibili ad un apprendista dell’artista conservato al Musée Fabre di Montpellier. Il mondo degli esperti, però, mugugna ed ha più di qualche dubbio, poiché anche se le schiene dei due uomini hanno la possanza muscolare della fisionomia amata dal Michelangelo, le pose, in realtà, risultano frivole e un po’ yè yè. La partita è aperta e, come recitano le cronache, avremo conferma o smentita sulla loro paternità, in luglio, dopo una lunga serie di esami. Ma non vorrei, però, che finisse come il più grande bluff della storia dell’arte: le famose teste di Modigliani. TRE-TESTE-MODIGLIANI Correva l’anno 1984, Vera Durbè, sorella di Dario, sovrintendente della Galleria d’arte moderna di Roma, allestì una mostra celebrativa di Modigliani a Livorno. Nonostante la pubblicità e lo sforzo, la mostra riuscì ad ospitare solo 4 delle 26 sculture riconosciute dell’artista ed è così che, considerata la scarsa attrattiva, non ci fu l’affluenza di pubblico sperata. La Durbè, allora, ritenne che per consacrare definitivamente la mostra, occorresse escogitare qualcosa di clamoroso che la collocasse in un contesto mediatico nazionale, per cui, furbetta, rispolverò una vecchia leggenda. Si narrava, infatti, che Modigliani, negli anni giovanili, avesse gettato quattro sue sculture nei fossi, poiché le riteneva brutte ed insoddisfacenti.Ecco che la Durbè, fece progettare appositamente un’escavatrice e, con scialo di finanze, organizzò la dragatura dei fossi livornesi alla ricerca dell’”arca perduta”. Stampa e tv s’impossessano della notizia e, seguirono i lavori di recupero assieme ai cittadini livornesi che ad ogni alzata di benna si lasciavano scappare degli “ohhhh” di disappunto, mentre la macchina faceva riaffiorare vecchi pneumatici, qualche scarpone e biciclette di varia taglia. Ma la cassa di risonanza crebbe a beneficio della mostra, infatti, la genialata della Durbè funzionò a meraviglia portando in soli due giorni, 50.000 presenze a Livorno. Grande Direttrice! «Continuavano a non trovare niente, così abbiamo deciso di fargli trovare qualcosa». State attenti; questa frase datata 30 anni prima e pronunciata da tre ragazzini, è il prologo di quanto accadde poi. La mattina del 24 luglio, forse il penultimo giorno di lavoro, la melma del Fosso Reale, alle 9 di mattina in punto, consegnò alla benna dell’escavatrice una pietra lavorata che richiamava un volto primitivo. Miracolo! La notizia arrivò ovunque; la città di Livorno, finalmente, sorrise e per la Durbè si prospettò la gloria eterna. Tutto il mondo dell’arte parlò dell’avvenimento e, mentre, altre due teste furono trovate nei giorni successivi, in diretta Tv un’ammucchiata di esperti, critici, benemeriti e autorevoli tromboni, sentenziarono e certificarono, senza dubbio alcuno, l’autenticità delle opere. Evviva! Furono così sicuri che, per celebrarle subito, vennero esposte nella mostra in corso al Museo di Villa Maria; un grande successo.Tutto filò liscio fino ad un mese dal ritrovamento, poi, un pomeriggio, tre filibustieri: Pietro Luridiana, Michele Ghelarducci e Pierfrancesco Ferrucci si presentarono nella redazione di Panorama dichiarandosi autori della burla. Costoro, tra mille risate, avevano scolpito la faccia e, quatti quatti, di notte, l’avevano buttata vicino all’escavatrice.Furono bravi anche a “trattare” con Panorama , l’esclusiva della notizia e lo scoop di una foto che li ritraeva mentre eseguivano la testa, la seconda ripescata, fruttarono ben 10 milioncini di lire. ragazzi Con qualche scalpellino e un trapano Black&Decker (la B&D vendette qualche milione di pezzi in più poiché sulla vicenda costruì una campagna pubblicitaria mondiale) i tre, realizzarono una delle sculture che gettarono in attesa del suo ritrovamento. black&decker Gli organizzatori, gonfi di gloria ed indaffarati a rilasciare interviste, non credettero alla versione dei tre ragazzi, anzi li accusarono di mitomania, tanto che , pur di dimostrare di aver detto la verità, i cattivi ragazzi , replicarono in diretta tv un altro falso impiegando pochi minuti e il fido Black& Decker. angelo-froglia-falsi-modì Il conto non tornava, se tanto mi da tanto, avanzavano ancora due teste, per cui, il critico Federico Zeri, uno degli scettici della prima ora, temendo il peggio e, cioè che tutte fossero false, fece un appello in diretta tv. Spiazzando un po’ tutti, Zeri esortò il presunto autore delle altre due testoline, ad uscire allo scoperto al fine di chiarire, in onore dell’arte, definitivamente, la vicenda.Il falsario non si fece attendere e, balzò agli onori della cronaca, tal Angelo Froglia, pittore, provocatore, scaricatore di porto e comunista (che a garanzia del suo gesto possedeva anche un video della creazione), il quale, dichiarò di aver concepito le sculture come un’opera artistica concettuale e provocatoria che doveva dare una scossa al “sistema”. Insomma, con dei falsi, voleva smerdare critici, esperti e storici e dimostrare al mondo che non solo sono presuntuosi ma anche  anche un po’ coglioni. Sticazzi che botta. Oltre ad essere uno degli scherzi più riusciti, la storia delle teste, stroncò la carriera e l’onore di Sovrintendenti (Carlo Durbè) , sacri critici d’arte (Brandi , Giulio Carlo Argan e Carli) e decretò la fine della carriera di Vera Durbè, la direttrice che come Indiana Jones inseguiva le chimere. La povera Livorno, passò “dalla gloria internazionale alla derisione intercontinentale” mentre, le estasi orgasmiche di coloro che avevano magnificato quei pezzi di pietra scalfiti a cazzo, cessarono ma, non senza scomodare, come giustificazione, scenari apocalittici, quali: complotti, di mafia, attacchi personali, golpe e altri cazzi & mazzi. Questa storia potrebbe finire qui, ma … accadde ancora qualcos’altro. Nel 91,quando la storia delle teste si era assopita, uno stilista, Mr. Saracino, notò altre teste scolpite accatastate in un angolo della carrozzeria di un tale Carboni. Conoscendo la leggenda e fiutando un possibile affare, Saracino dichiarò il proprio interesse per le teste e concordò con Carboni un compenso del 50 per cento sul valore che sarebbe riuscito a cavarne fuori nel caso fosse riuscito a venderle. Saracino, confortato da un parere di Carlo Pepi (massimo esperto delle opere di Modì) sulla loro autenticità, cominciò a chiedere ,insistentemente, alle istituzioni, musei ,sovrintendenze e Commissioni ministeriali anche un loro pronunciamento che, purtroppo, non arrivò mai, poiché nessuno ebbe il coraggio di pronunciarsi né per il si, né per il no e né per il ni. Nel frattempo, la vicenda finì in tribunale, perché la famiglia “Solicchio” accusò Carboni ,il carrozziere ,di essersi impossessato delle opere prelevandole da un loro terreno. La svolta giudiziaria, impose che le nuove teste venissero periziate e, udite bene, esse furono dichiarate false da un esperto che le confrontò con un ‘altra opera del maestro , che poi, udite ancora meglio, verrà dichiarata falsa in un successivo momento. Opere ritenute false perché confrontate con una opera vera del maestro che poi verrà ritenuta falsa. Nemmeno il miglior Diabolik avrebbe potuto far di meglio. E, come nei migliori gialli, durante il processo per falso a Saracino & c., la difesa tirò fuori uno schizzo originale di Modigliani esposto in una mostra che richiamava, badate bene, una delle teste sotto accusa. Nuovo colpo di scena, le teste potevano essere di Modì, così, nell’imbarazzo generale, si prospettò un clamoroso dietro-front ,con la vicenda che ripiombò nel pantano del vero,non vero, vero a metà. Un fatto comunque è certo, i tre compari, Saracino, Pepi e Carboni,furono assolti dall’accusa poiché si configurò l’ipotesi, a questo punto, agghiacciante, che le opere potessero essere autentiche visto lo schizzo ma anche la presenza di alcuni segni cabalisti presenti su entrambi. Tra udienze, spostamenti di aule e rinvii, una delle tre teste scomparve, mentre le altre due , vennero collocate in un misero deposito giudiziario in attesa della fine della controversia. Oggi,se non sono sparite, dopo 24 anni , giacciono ancora lì e, il mondo, la Durbè, voi, gli eredi Solecchio, Livorno tutta e l’ignaro appassionato d’arte slovacco, non sanno ancora e, mai sapranno se sono vere o false. Che dire? blackdeker1-maxi Finale: Ma se i tre ragazzi, non fossero andati a “Panorama” con la foto a spifferare la burla, che ne sarebbe stato di questa storia e del mio post ??? Eh?

La città di Vincenzo

Premessa: Sono un vacanziere appassionato del Salento da più di 25 anni. Nel 2003, ho visto per caso “ Italian sud est”, una sorta di docu-film che racconta di un treno che attraversa la provincia di Lecce, incrociando personaggi bizzarri e luoghi fatati. Nel documentario, compare ad un certo punto un tal Vincent, personaggio sui generis che balla e salta sul suo letto, poi, ripreso fiato, si racconta davanti ad una casa fatta di piastrelle colorate e piena di orpelli di varia natura, insomma un’ invenzione cinematografica che rimane impressa. La storia Diversi anni fa, lessi su un quotidiano di Lecce che avevano messo i sigilli all’eremo di Vincent per abusivismo e che lo stesso poteva essere demolito. L’articolo concludeva che Vincent artista “fuorilegge” aveva edificato senza i permessi necessari una casa –tempio ed una pinacoteca, contenente, le sue opere, alla periferia di Guagnano, che era diventata, col tempo, meta di tanti visitatori. Ma allora Vincent esiste? Allora non era la solita  comparsata ? Vincent c’è. Vincenzo  Maria Brunetti, detto Vincent, nasce a Guagnano (Le) nel 1950, da bambino, fu colpito dal virus della poliomielite rischiando addirittura l’immobilità ma, fortunatamente, due interventi al piede sinistro prima, poi, una cura con il principio dell’elettricità statica, la cosiddetta “Lamina Bior “ (ma questa è un’altra storia), hanno fatto sì che Vincent è ancora tra noi e gode di buona salute. Ha vissuto a Milano per un ventennio, come scultore e pittore, ed è entrato in contatto con personaggi di spicco internazionale quali Francesco Messina, Giacomo Manzù e Arnaldo Pomodoro. Nel 1993 torna a Guagnano, povero in canna e, per vivere, vende o baratta i suoi quadri. Ecco che a seguito dello scambio di un quadro con un tir di materiale da costruzione che inizia, per Vincent, l’avventura più straordinaria della sua vita: costruire Vincent City. Dopo aver letto la notizia, parto una mattina, destinazione Guagnano; Ale, Giulia e cane al seguito e, un discreto carico di emozione. Dopo un’ora e un quarto di viaggio, dietro una curva, in aperta campagna, appare finalmente, la città di Vincent. In un ampio cortile si erige un complesso architettonico in stile arabesco ma realizzato seguendo i tratti di un bambino. Piastrelle coloratissime, scritte bibliche ovunque e statue di ogni fattezza e genere. Sembra un set pronto ad ospitare una scena di un film di Tim Burton, tanta la follia realizzativa, eccessiva e kitsch.Muovendomi tra statue di santi, angeli e tutti gli animali dell’arca, entro liberamente nell’eremo, dove mi aspetta la più pura psichedelia. Corridoi, stanze di ogni dimensione, scale, soffitti, rientranze, oblò, controsoffitti e nicchie: tutto affrescato, scritto e tappezzato. E ancora, mosaici, statue moderne, cianfrusaglie, bandiere, putti e bambole di ogni tipo. Sacro e profano s’intrecciano in ogni metro dell’eremo, copie e creazioni originali si mischiano con oggetti recuperati, stravolti e colorati come in un immenso bazar. Dentro, più che all’esterno, l’improbabile ha preso  forma e sostanza. 796px-Casa_vincent_brunetti Uscendo alla luce, ho pensato ad una Babele, ad una casa di marzapane addentabile e, non nascondo, che mi è sfiorata l’idea che l’eremo fosse l’opera di un folle, pensieri contrastanti.casaVincentBrunetti_01 Lui, comunque, ci attende nel suo studio, seduto e serioso. Sorride ai 12 visitatori presenti, chiede la provenienza, e, d’improvviso lascia partire una disco music ad altissimo volume mentre comincia a danzare. Nonostante la gamba martoriata, Vincent volteggia leggero e alterna passi di danza a veloci pennellate. “Pitta zompa e balla ” così dice di lui la madre, ma , si dimena anche scompostamente  e lascia partire anche degli anatemi verso la società moderna, il consumismo  e le guerre. Sembra svenire, poi, riprende vigore, tocca la sua gamba malata, cade e si rialza, facendo una giravolta. Nel frattempo, non smette di parlare, dipingere, sorridere e zompettare come un elfo in un bosco, 40 minuti di qualcosa di tribale, arcaico e misterioso. Finito il quadro, bellissimo, si lascia cadere sulla sedia e sorride, stanco. Nel mentre tre persone sono uscite, il rito li ha turbati, forse spaventati. https://www.youtube.com/watch?v=fHhoEFYtp-0 Vincent, il personaggio che ha conosciuto le patrie galere per abusivismo, è quello che ognuno di noi, forse, avrebbe voluto essere, un uomo assolutamente libero che ha rinunciato a diventare adulto ma ha coltivato e realizzato il suo sogno. Sconfiggere la poliomielite, vivere e costruire la sua città partendo da 4 assi, cemento e qualche pietra.  Sulle prime appare un tipo strano, anche un po’ inquietante, ma trascorsi i minuti e vederlo nella sua danza propiziatoria e produttiva, Vincent appare quello che è: un bambino che si è costruito il suo “paese dei balocchi” dove vuole trascorre l’esistenza. E’ un artista, ha carisma ma non è capace di “lucrare”, infatti, la visita nell’eremo è gratuita e, le diverse centinaia di opere realizzate, ammonticchiate, in un angolo del suo studio, vengono vendute a prezzi irrisori: arte per tutti, il messaggio pittorico di Vincent costa come una riproduzione all’ikea. primopianodefault Vincent non è un uomo facile è un “diverso”, cocciuto ed irremovibile, probabilmente, avrà il successo che merita, solo, dopo la morte. Oggi, è troppo spinto nelle sue gestualità, troppo lontano dallo stereotipo dell’artista e poi è inquietante con la sua danza da zoppo, le sue trance hanno un che di orfico- dionisiaco: Vincent è un visionario che dipinge e spaventa, inadatto alle scolaresche e forse non consono per la Puglia. La sua terra, ritratta in cento quadri, infatti, non è benevola con lui, non lo omaggia debitamente; politici e benpensanti snobbano la sua arte indiscussa, sottolineando la bizzarria del personaggio. museo_vincent Io, invece, l’ho trovato un uomo solo, un eremita confinato nel suo castello con un’idea dell’arte filtrata e vissuta attraverso la sua personale visione del mondo. E’ un leone tra le sue cose, fuori da Vincent City, lo mangerebbero in un solo boccone e, come un bambino smarrito, lo deriderebbero come spesso si usa fare con coloro che, ai più, risultano“ non catalogabili”. Il Vincent pensiero è oceanico, confuso e delle volte criptico, a tratti banale ma anche profondissimo, però, si può racchiudere in una sua affermazione  “C’è un solo sistema per disarmare tutto un esercito: La fede in Dio, l’Arte con i suoi colori e il sorriso dato a piene mani alla gente di tutto il mondo.” Dopo aver salutato Vincent, mi è venuto il desiderio di comprare un suo quadro, ho speso quanto il costo di una cornice discreta ma sento di aver fatto la cosa più giusta del mondo, senza obblighi o alcuna induzione, l’ho scelto in totale libertà con lui che guardava. Lui è cosi, non sa quotare, vendere o vendersi, lui “Pitta zompa e balla”. IMG_0529 Si arriva a Vincent City con il passaparola, non esiste alcuna guida che lo indichi e nessuna pubblicazione ufficiale che lo consigli ma, visto il luogo ed il personaggio, forse è il miglior sistema per vivere qualche ora “nella nuova Babele “e rendere un silenzioso omaggio al chiassoso Maestro Vincent Maria Brunetti. Dimenticavo,…dietro l’eremo ho visto del materiale pronto per erigere qualche altra stanza o ala, nonostante la galera, le minacce e la recente revoca di demolizione, Vincent è pronto ancora a disubbidire al fine di far crescere la sua città. Ribelle, folle e indomito. L’indirizzo è questo: Eremo di Vincent, Via Case Sparse 718, 73010 Guagnano (Le) tel. 0832706315. Vi riceverà sorridente e in canottiera.

Luca Flores, di professione musicista malinconico.

Luca Flores, sconosciuto al grande pubblico, è stato un talentuoso pianista la cui produzione discografica si compone di soli cinque dischi. Nasce a Palermo nel 56, ma ben presto, con tutta la famiglia segue in Mozambico, il papà geologo ed è in questa terra che a cinque anni, sollecitato dalla madre, comincia gli studi di pianoforte.
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Il destino, mischiando le carte, decide che Luca doveva conoscere presto il dolore della perdita prematura della madre. In un giorno di sole, una passeggiata in macchina, la mamma che sorride al figlio dallo specchietto retrovisore, d’improvviso una gomma che scoppia, l’auto che sbanda, Jolanda che muore e lui, che sentendosi responsabile di quell’incidente per un sorriso complice, s’infila nel tunnel del “senso di colpa”. Da un’occhiata e un sorriso ricambiato parte il tormento di un’esistenza.
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La vita, comunque, continua e, nel 70 rientrato con la famiglia a Firenze si diploma con il massimo dei voti in pianoforte. Luca, di formazione classica, suona indifferentemente bebop, jazz e ballads di ogni tipo, un talento straordinario. Comincia da qui la favola dell’affermazione e del successo che lo portano in poco tempo a collaborare con nomi del calibro di Chet Baker, Dave Holland e Lee Konitz. Concerti ovunque e la classica vita del bohemienne del jazz, caratterizzano fortemente quegli anni che forse furono i più belli della sua esistenza.
Luca al successo personale, contrapponeva, però, un continuo rifuggire le luci alla ribalta, era schivo e taciturno ed amava solo stare sul palco a suonare. Il dolore dei ricordi iniziava a mordere e a segnarlo.
Luca-Flores
Girò in lungo e in largo l’Italia, poi, Germania, Francia, Russia, Olanda e Svizzera e, per circa sei anni insegnò in un prestigioso Istituto fiorentino ma il disagio mentale e il senso di solitudine non scompaiono anzi si acutizzano.
Nel frattempo, conobbe l’amore, una compagna, Lucia Sanfilippo che forse fu l’unica a lenire il suo continuo senso di colpa, a stargli accanto, accettando i suoi lunghi silenzi mentre leggeva quanto i suoi occhi cercavano disperatamente di dire. Ma Lucia non bastò perché Luca “ non era di questo mondo” come ripeteva spesso.
How-Far-Can-You-Fly
Contrariamente agli artisti maledetti, non si avvicinò mai all’alcool o alle droghe, scelse di vivere il suo strazio con l’annichilimento mentale e tutti i suoi sforzi e pensieri della giornata erano rivolti alla musica; scrisse e suonò ogni nota come dovesse essere l’ultima, sfinimento e paranoia.
Comincio ’presto il declino. Le notti si fecero più buie e l’abisso che si spalancò lo inghiottirono, nonostante gli psicofarmaci e l’amore di chi gli era accanto, Luca, scivolava via da questa vita, mentre, tentava disperatamente di decidere se vivere, suonare o morire. Odiava i sedativi che gli impedivano di suonare ma suonare anche se lo allontana dai pensieri negativi gli procurava stress, solitudine e cadute continue.Una strada senza uscite.
Tra un concerto e una session, tento di infilarsi un cacciavite nell’orecchio, perché, disse “ Volevo fermare il cervello che stava scendendo in gola.” Autolesionismo.
Seguirono, in un crescendo crudele, il taglio dei polpastrelli e di un dito e , quindi, un tendine reciso.
Cure più pesanti e l’elettroshock non scacciarono alcun fantasma , i silenzi si fecero più lunghi e penosi, fino a che, nel 1995, a soli 39 anni, Luca Flores trovò la pace alle sue angosce con una corda al collo.
Prima di suicidarsi, spedì al padre un plico, contenente una lettera di scuse e la registrazione di tre brani che erano inclusi nel suo ultimo disco, inciso solo qualche mese prima di morire.
In uno di questi brani, “How can far you fly?” , Luca aveva suonato al piano, appositamente per il padre, come per chiedergli davvero “quanto lontano si può volare?” Quel titolo era la domanda che Luca si era posto nella sua breve vita ma a cui non aveva saputo rispondere se non l’ultima sera del 1995 quando aveva capito che i suoi ricordi e il suo male oscuro lo avrebbero sempre ricacciato nel proprio inferno, a cui era stanco di resistere.
Quel brano era il testamento di una vita vissuta in maniera devastante ,l’acuto di un genio riservato e maledetto e, ancora, un modo per chiedere scusa al padre per l’inadeguatezza e l’impossibilità del suo vivere.

La canzone , con partitura malinconica e struggente, non ha nulla a che fare con il jazz, essa è pura fatica e disagio ma contiene anche la dolcezza del commiato e la rassegnazione della vicina requie, Luca aveva deciso che il suo volo era terminato e con esso la sua esistenza. Fine paranoie, ricordi e affanno di vivere. Fine.
Ascoltarla, conoscerla e farla volare nell’aria è come tributare un omaggio a un grande artista che, sono convinto, ha scritto e suonata ogni singola nota di “How can far you fly?” con la consapevolezza che sarebbero state le ultime della sua vita, così come amava dire.

Una leggenda metropolitana……vera.

Nel 1982, circolò un appello, prima a voce e tra gracchianti radioamatori, poi, per posta e attraverso i giornali in cui un bambino di Paisley, in Scozia, soprannominato “Little Buddy”, affetto da leucemia, aveva espresso il desiderio di battere il record di cartoline ricevute. In realtà non esisteva alcun record ma l’ufficio postale della cittadina fu’ invaso da qualche milione di cartoline da tutto il mondo che, non furono mai recapitate poiché a Paisley non esisteva e, non era mai esistito, nessun Little Buddy.
Nel 1989, un giovane inglese, tal Mario Morby, affetto da cancro, fu il primo a iscrivere un record sul Guinness dei Primati con circa un milione di cartoline ricevute ma anche qui, grava il forte sospetto che Mario non fosse mai esistito in quanto, qualche anno dopo, si diffuse una voce secondo cui lo sventurato fosse morto a causa di una pila di sacchi di cartoline che lo seppellì.

Ecco che, nel 1989 a Craig Shergold , bambino di nove anni di Wallington, centro a sud di Londra, venne diagnosticato un tumore al cervello che, secondo i medici del “Royal Mardsen Hospital” , non gli avrebbe dato scampo. La madre di Craig, amici e parenti , nel tentativo di sollevare il morale del piccolo, fecero partire una catena di Sant’Antonio in cui si richiedevano dei biglietti di auguri da inviare a Shergold in modo che potesse fare record nel Guinness dei Primati e battere il primato di Mario. Tra stampa e ufficio londinese di “Children Wish Foundation” parti una campagna mondiale che produsse in un solo anno 16 milioni di cartoline ed il nuovo record.
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Il ritmo era di circa 27 mila cartoline a settimana , tra le quali quelle firmate da Margaret Thatcher, Gorbaciov, Michael Jackson, Madonna e Schwarzenegger .Ma è nel ‘ 91 che arriva la lettera più importante; la scrive John Kluge, uno degli uomini più’ ricchi d’ America, che manifestava l’intenzione di pagare le spese per un’ operazione in uno dei migliori ospedali del mondo, il Medical Center dell’Università della Virginia. Il 23 maggio ‘ 91 Craig torna a casa con 160 punti di sutura in testa, svariate tonnellate di cartoline da controllare, ma soprattutto, definitivamente guarito, dopo un intervento riuscito che aveva rimosso il tumore.
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Nel 1991 il Guinness aggiorna il primato e segna 33 milioni di cartoline a favore di Graig. Ma ecco che la catena di Sant’Antonio, ormai senza fine, sbarca su internet e nel 1998, la valanga di cartoline passa a circa 250 milioni con un ritmo di 36 sacchi a settimana negli uffici postali e, tonnellate di cartoline negli uffici “ad personam” aperti per Craig negli ospedali della sua città e nella “Children’ s Wish Foundation”.
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Oggi, Graig sta bene, non fa apparizioni in pubblico e, la sua storia sopravvive su 1.280 siti e in altrettanti gruppi di discussione on line, tanto che, non appena parte una news group contenente un suo riferimento , le cartoline riprendono a partire ed arrivare furiosamente.
Ad oggi , si stima che egli abbia ricevuto circa 350 milioni di biglietti di auguri, dal giorno in cui chiese a tutta l’umanità che gli inviassero una cartolina .Graig oggi è vittima di una solidarietà senza fine che è talmente spropositata, inarrestabile da essere oggetto, anche, di migliaia di pagine Web dedicate, specie, tra le “leggende metropolitane”. Insomma , la storia sembra così paradossale che qualcuno avanza il sospetto che sia una bufala colossale. Roba da non crederci.
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Ma Graig c’è, esiste, seppure schiavo della sua leggenda , continua ad essere il protagonista reale di una storia altrettanto vera che non riesce ad esaurirsi ma che ogni giorno si autoalimenta in un delirio di cartoline incontrollato. Se la solidarietà si affievolisce in Brasile, riparte con slancio dalla Svezia, per cui, non appena il flusso di milioni di missive comincia a scemare ecco che nel web riparte un appello per Craig ed è così che la rete continua ad amplificare una storia passata , che come Graig , non è destinata a morire.
Sono anni che questo ex ragazzo, cosi’ come quando era un bambino malato, vorrebbe che si avverasse un altro suo desiderio, l’ultimo. Graig desidera essere dimenticato, infatti ,vinta la timidezza e preso coraggio, ha veicolato più volte un messaggio attraverso i suoi amici , l’ultimo appello un anno fa – “Vi ringrazio per i milioni di cartoline, ma ora fermatevi, ve ne prego” .
Ma il mondo, la solidarietà ed il web ,incuranti, , hanno fatto impennare nuovamente il numero dei pacchi di cartoline che, oggi , si attesta a circa una trentina a settimana , cui, un team apposito ,dopo un piccolo controllo , stacca il francobollo, avviando il resto della carta ad aziende di riciclaggio.
Carta e materiale filatelico, comunque, fruttano intorno 35 mila euro l’anno che la mamma di Graig, dona alle associazioni di ricerca sul cancro.
La leggenda, volenti o nolenti, è destinata a continuare.

L’HOMO LECCACULUS

Quando il cacciatore della preistoria scoprì che con una clava poteva difendersi o procurarsi del cibo più facilmente,l’uomo che gli era accanto, invece di fare altrettanto, preferì adularlo, ossequiarlo con suoni gutturali.
Nei giorni successivi,l’adulatore non provò mai a cacciare ma continuò a esaltare le virtù e l’ingegno del primo,con il risultato che costui , gratificato dagli elogi, cominciò a regalargli una parte del cibo procurato. Nasce così il primo spregiudicato lecchinaggio della storia dell’uomo.
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Tracce concrete, poi, di questa pratica si riscontrano nella gloriosa civiltà greca, dove sui vasi di terracotta impazzava una figura mitologica,un essere umano senza braccia e con due lingue: simbologia fin troppo chiara; senza bisogno, quindi, di essere esplicitata.Vai.
La Roma di Nerone,conobbe oltre le gesta crudeli del personaggio anche la sua passione per la musica e il canto, tanto che, stonatissimo, l’imperatore amava esibirsi nei teatri pubblici. Considerandosi un grande artista ,Nerone ,non ammetteva che qualcuno potesse criticarlo anzi, si circondava di adulatori- sirena , che per accaparrarsi i suoi favori , lo lodavano senza alcuna vergogna. Solo Seneca , suo precettore, non avendo il coraggio di dirgli che era una pippa come cantante, gli suggerì di evitare le esibizioni in teatro poiché , essa rappresentava una pratica poco indicata per la statura di un imperatore. Nerone, il più pazzo della storia di Roma, capito il senso, dapprima lo licenziò e poi, per sfizio, lo fece uccidere.
Nulla cambiò,poi, nella Roma Repubblicana , nonostante Tacito disse che “i nostri nemici peggiori sono quelli che ci adulano”, senatori e varia borghesia, continuarono, infatti, a circondarsi di una volgare corte foraggiata a sesterzi e bistecche di toro che, aveva il preciso compito di elogiare e ingrandire il loro nome e fama.
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Con il Cristianesimo, Satana viene considerato il più grande adulatore dell’umanità, mentre, si può affermare che Gesù è stato il primo vero fustigatore dei discepoli adulanti e lecchini, a tal proposito esistono testimonianze in cui si narra che Cristo Redentore li abbia spesso presi a pesci e pizze in faccia fino “ripulirli” degli inutili orpelli e a forgiarne il carattere.
Arriviamo all’anno 1000, in cui la pratica del lecchinaggio aveva un duplice scopo, da un lato, per evitare la condanna al fuoco eterno della chiesa , si adulava la gerarchia ecclesiastica , dall’altro , un ricettacolo di ruffiani, leccaculo, puttane e tenutari, oltre che a dispensare complimenti e sorrisi , spesso, facevano intermediazione affinché qualche prostituta,(nei bagni pubblici e nei postriboli) concedesse le proprie grazie al potente signorotto di turno. Gli “slinguatori”, così , si garantivano il paradiso e la vita terrena in un solo colpo. Che gran culo che avevano nell’anno 1000.
Il sommo Dante che della vita aveva capito tutto, non ebbe indugi e, nel canto diciottesimo dell’Inferno , nella prima e nella seconda bolgia dell’ottavo cerchio, colloca i ruffiani , seduttori e gli adulatori, siamo, precisamente, nel 1300.La Bolgia dove alloggiano i leccaculo è oscura e profonda ed è piena di merda. ( mai location è stata più calzante)Qui i dannati, si lamentano, sbuffano e soffiano con le narici, mentre, si picchiano con le proprie mani.Dante ne scorge uno sommerso di cacca fino ai capelli, riconoscendolo in un lucchese, tale Alessio Terminelli che in vita, aveva capelli asciutti, belli e fluenti come le parole che proferiva per fare il leccaculo. Il dannato Terminelli, che non smetteva di prendersi a schiaffi, confessò al poeta di scontare la pena delle adulazioni fatte di cui la sua lingua non fu mai abbastanza sazia.Ecco, dunque, che affiora la prima vera connessione tra culo, merda e l’azione di leccare, quindi, con ogni probabilità, si può affermare che il termine “leccaculo”, trova la propria origine nell’opera del Sommo Poeta.
Inferno 18_133-135 Taide
Qualche annetto dopo, In pieno Rinascimento,stessa solfa, la corte s’ ammassava attorno al Signore con la molestia e il fastidio delle mosche e, bastava che costui sparasse una cazzatella qualsiasi, che schiere di eccitati cortigiani si lanciavano in lusinghe e compiacimenti affinché potessero mangiare a fianco del potente o, in subordine, mangiare ciò che avanzava dai loro sontuosi pasti.Che tristezza.
Nei secoli successivi, nulla cambio’ anzi, la rivoluzione industriale e le grandi guerre, perfezionarono l’arte del “lecchinaggio” tanto da dare vita ad una variante ancora peggiore:il “lecchino imboscato”, un lercio codardo che per non scendere nelle miniere o per non raggiungere il fonte era capacissimo di confermare asini in volo o di trovare carini i figli-mostri dei loro capi. Ne deriva che i sopravvissuti di tutte le guerre non sono stati quelli che hanno affrontato i nemici ed hanno venduto cara la pelle ma quelli imboscatisi in ufficio a sbavare dietro a qualche sottana.
Questo veloce excursus, dimostra che ovunque esista una gerarchia, parte di umanità,cerca l’arrampicata con la lingua o con strategie adulatorie.L’evoluzione,come descritto,ha favorito soprattutto i servili e coloro che sgomitano a danno dei giusti, ma , è nulla in confronto al “leccaculo” contemporaneo, una micidiale macchina da guerra, evoluta ed instancabile, che è capace di lasciare anche un chilometro di scia salivare.
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Per esigenze di spazio, dedicherò un post apposito sul “leccaculo contemporaneo” ma vi lascio una telegrafica anticipazione attraverso una frase del grande Flaiano ““A furia di leccare, qualcosa sulla lingua rimane sempre”. Già!
Alla prossima, slurp!

Il caffè sospeso.

Roma,ore 8.34 nei pressi della stazione Termini,un bel Bar,affollatissimo.
“Buongiorno, quando può,un caffè per favore”,dico.
La ragazza affaccendata alla macchina si gira di scatto, quasi incredula mi dice “… normale?”
Ecco , comincia da qui la più grande avventura che attraversa l’italia in lungo e in largo,la liturgia mattutina che si celebra nelle ore di punta tra spintoni, conquiste di pezzetti di bancone e sventolii di scontrini.
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Italiani un popolo di santi, poeti, navigatori, artisti e cazzi & mazzi che di mattina diventano dei negrieri che seviziano con richieste impossibili i banconisti di tutti i bar del patrio suolo.
Partendo dalla variante “ vetro o tazza” e passando per la sottovariante “tazza piccola o tazza grande” si apre un universo fatto di professionisti, pensionati ma anche di evasori , corruttori, guitti, narcisisti, demagoghi, razzisti etc etc ; tutti , ma proprio tutti, accomunati dal fatto che sono incapaci di prendere un caffè o un cappuccino , normali, ma si rivelano degli esigenti consumatori di “ caffè concept” , paradigmi di caffè, architetture di aromi e misture personalizzate, dove una goccia in più o in meno può essere decisiva come una finanziaria.
Ed eccoli i banconisti, alle 8 sono già suonati come pugili, incapaci di reagire mentre ascoltano i secondi all’angolo , fanno cenno di si con la testa abbozzano un sorriso ma la loro mente aspetta solo l’arrivo del gong e scappare via.
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“Un caffè d’orzo in tazza piccola/grande” : tutto sommato, abbastanza semplice.
“Un caffè lungo/ristretto” : qui si rischia il troppo delle due varianti.
“Caffè macchiato freddo/caldo”:non ci sono grossi ostacoli
“Caffè al ginseng/deca/marrocchino/nocciolino/corretto/schiumato/panna/con ghiaccio o freddo/doppio
:siamo ancora nelle competenze umane.
Ma,immancabilmente,arriva la vocina impiegatizia al lato del bancone che dice “Cortesemente,un caffè macchiato freddo con latte scremato al vetro” e qui cominciano i primi cazzi.
I banconisti vanno nel panico, non trovano il bricchetto del latte scremato,si girano ,cercano, mentre,dall’altro lato giunge un altro ordine sinistro “Un cappuccino con caffè caldo, latte freddo, senza schiuma con su una spolverata di cacao e un goccetto d’acqua frizzante a temperatura ambiente”; è la fine.
Il capo dei banconisti,non si perde d’animo e,mentre cerca di trovare il bricchetto di cui sopra, riassume la cronologia degli ordini alla ragazza della macchina “Cinzia ,allora abbiamo, quelli di prima , più 2 normali,un cappuccio scuro al vetro, due ristretti e un moccaccino (altra boiata)” mentre un ragazzetto,scovato il bricchetto del latte scremato,porta a compimento uno dei primi capolavori richiesti.
Nel frattempo non si è mai arrestato il delirio della richiesta di:cornetti, krantz, graffe, brioches,prussiane, francesine, melizie, trecce, maddalene e sfogliatine.
Prima che io esca, arriva un occhialuto che stende tutti con “Caffè doppio ristrettissimo con latte freddo e miele a parte, un caffè macchiato caldo in monouso e una treccia tagliata in due”
Ogni giorno, mentre in africa una gazzella comincia a correre, in italia, venti milioni di persone entrano nei 125 mila bar caffè. Un’autentica strage. Il caffè espresso è un gigante con 5,7 miliardi di fatturato e 6 miliardi di tazzine consumate, per le quali i baristi acquistano 50mila tonnellate di materia prima per un valore di 900 milioni di euro. E, badate bene, secondo Focus, esistono ben 111 modi o varianti per servire un caffè, un primato mondiale di cui non sono convinto di essere fiero.
Tra i 111 modi , ho letto un momento di pura poesia che mi ha emozionato oltre che per il fatto che è della categoria dei cosiddetti “caffè normali”.
Il caffè sospeso.
L’usanza è antica e risale a metà dell’Ottocento.A Napoli si usava prendere un caffè al bar ma pagarne due, specialmente se la giornata era iniziata bene o se c’era da festeggiare qualcosa ma soprattutto per pura solidarietà. In questo modo chi non poteva permettersi il caffè al bar, aveva un caffè offerto da qualcuno più abbiente.I caffè sospesi venivano segnati su una lavagnetta e, a richiesta di chi non aveva possibilità,veniva servito e depennato dall’elenco.
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Il caffè sospeso, presente da sempre nei vicoli di Napoli , oggi, ha ripreso il suo cammino e si sta diffondendo in tutto il mondo. Un gesto, un semplice caffè offerto a tutta l’umanità da chi lo beve che,consapevolmente, pensa a chi non può ma che ne ha bisogno come di un sorriso o di una pacca sulle spalle.