Luca Flores, di professione musicista malinconico.

Luca Flores, sconosciuto al grande pubblico, è stato un talentuoso pianista la cui produzione discografica si compone di soli cinque dischi. Nasce a Palermo nel 56, ma ben presto, con tutta la famiglia segue in Mozambico, il papà geologo ed è in questa terra che a cinque anni, sollecitato dalla madre, comincia gli studi di pianoforte.
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Il destino, mischiando le carte, decide che Luca doveva conoscere presto il dolore della perdita prematura della madre. In un giorno di sole, una passeggiata in macchina, la mamma che sorride al figlio dallo specchietto retrovisore, d’improvviso una gomma che scoppia, l’auto che sbanda, Jolanda che muore e lui, che sentendosi responsabile di quell’incidente per un sorriso complice, s’infila nel tunnel del “senso di colpa”. Da un’occhiata e un sorriso ricambiato parte il tormento di un’esistenza.
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La vita, comunque, continua e, nel 70 rientrato con la famiglia a Firenze si diploma con il massimo dei voti in pianoforte. Luca, di formazione classica, suona indifferentemente bebop, jazz e ballads di ogni tipo, un talento straordinario. Comincia da qui la favola dell’affermazione e del successo che lo portano in poco tempo a collaborare con nomi del calibro di Chet Baker, Dave Holland e Lee Konitz. Concerti ovunque e la classica vita del bohemienne del jazz, caratterizzano fortemente quegli anni che forse furono i più belli della sua esistenza.
Luca al successo personale, contrapponeva, però, un continuo rifuggire le luci alla ribalta, era schivo e taciturno ed amava solo stare sul palco a suonare. Il dolore dei ricordi iniziava a mordere e a segnarlo.
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Girò in lungo e in largo l’Italia, poi, Germania, Francia, Russia, Olanda e Svizzera e, per circa sei anni insegnò in un prestigioso Istituto fiorentino ma il disagio mentale e il senso di solitudine non scompaiono anzi si acutizzano.
Nel frattempo, conobbe l’amore, una compagna, Lucia Sanfilippo che forse fu l’unica a lenire il suo continuo senso di colpa, a stargli accanto, accettando i suoi lunghi silenzi mentre leggeva quanto i suoi occhi cercavano disperatamente di dire. Ma Lucia non bastò perché Luca “ non era di questo mondo” come ripeteva spesso.
How-Far-Can-You-Fly
Contrariamente agli artisti maledetti, non si avvicinò mai all’alcool o alle droghe, scelse di vivere il suo strazio con l’annichilimento mentale e tutti i suoi sforzi e pensieri della giornata erano rivolti alla musica; scrisse e suonò ogni nota come dovesse essere l’ultima, sfinimento e paranoia.
Comincio ’presto il declino. Le notti si fecero più buie e l’abisso che si spalancò lo inghiottirono, nonostante gli psicofarmaci e l’amore di chi gli era accanto, Luca, scivolava via da questa vita, mentre, tentava disperatamente di decidere se vivere, suonare o morire. Odiava i sedativi che gli impedivano di suonare ma suonare anche se lo allontana dai pensieri negativi gli procurava stress, solitudine e cadute continue.Una strada senza uscite.
Tra un concerto e una session, tento di infilarsi un cacciavite nell’orecchio, perché, disse “ Volevo fermare il cervello che stava scendendo in gola.” Autolesionismo.
Seguirono, in un crescendo crudele, il taglio dei polpastrelli e di un dito e , quindi, un tendine reciso.
Cure più pesanti e l’elettroshock non scacciarono alcun fantasma , i silenzi si fecero più lunghi e penosi, fino a che, nel 1995, a soli 39 anni, Luca Flores trovò la pace alle sue angosce con una corda al collo.
Prima di suicidarsi, spedì al padre un plico, contenente una lettera di scuse e la registrazione di tre brani che erano inclusi nel suo ultimo disco, inciso solo qualche mese prima di morire.
In uno di questi brani, “How can far you fly?” , Luca aveva suonato al piano, appositamente per il padre, come per chiedergli davvero “quanto lontano si può volare?” Quel titolo era la domanda che Luca si era posto nella sua breve vita ma a cui non aveva saputo rispondere se non l’ultima sera del 1995 quando aveva capito che i suoi ricordi e il suo male oscuro lo avrebbero sempre ricacciato nel proprio inferno, a cui era stanco di resistere.
Quel brano era il testamento di una vita vissuta in maniera devastante ,l’acuto di un genio riservato e maledetto e, ancora, un modo per chiedere scusa al padre per l’inadeguatezza e l’impossibilità del suo vivere.

La canzone , con partitura malinconica e struggente, non ha nulla a che fare con il jazz, essa è pura fatica e disagio ma contiene anche la dolcezza del commiato e la rassegnazione della vicina requie, Luca aveva deciso che il suo volo era terminato e con esso la sua esistenza. Fine paranoie, ricordi e affanno di vivere. Fine.
Ascoltarla, conoscerla e farla volare nell’aria è come tributare un omaggio a un grande artista che, sono convinto, ha scritto e suonata ogni singola nota di “How can far you fly?” con la consapevolezza che sarebbero state le ultime della sua vita, così come amava dire.

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